Convegno Ecclesiale Diocesano 2010

Cattedrale di Oristano, 9 ottobre 2010

Le categorie spirituali che possiamo ricavare dal racconto evangelico di guarigione che accompagna la nostra celebrazione le possiamo riassumere in una preghiera: “abbi pietà di noi”; ed in un atteggiamento: “si prostrò per ringraziarlo”. Queste due istanze racchiudono ed esprimono il dinamismo dell’esistenza eucaristica che vogliamo imparare a vivere come frutto interiore del nostro convegno ecclesiale.

Più volte, durante la nostra assemblea, è stata evocata la necessità di vivere la vita di cristiani eucaristicamente, passando dalla celebrazione del rito alla celebrazione della vita. Il racconto evangelico che abbiamo ascoltato ci fornisce le modalità e le dimensioni di questa esistenza eucaristica. La prima di queste dimensioni è certamente la preghiera; preghiera di intercessione prima ancora che di lode. Infatti, la reazione più spontanea e più giusta quando incontriamo Dio è chiedergli aiuto con umiltà e sincerità, perché “la sua onnipotenza si manifesta soprattutto nella misericordia e nel perdono”. L’invocazione di aiuto è il primo passo verso la salvezza, per il fatto che davanti a Dio non abbiamo meriti da rivendicare, bensì perdono e misericordia da invocare. Solo chi ha l’umiltà del pubblicano viene liberato dalla sua miseria e raggiunge la salvezza. Chi, invece, ostenta la superbia e l’orgoglio del fariseo rimane nella sua solitudine. Ogni volta che ci presentiamo ai piedi dell’altare, per la celebrazione dell’Eucaristia, sentiamo il bisogno di purificare i nostri sentimenti e la nostra coscienza, e perciò, nell’atto penitenziale, invochiamo per tre volte la misericordia di Dio. Questa invocazione non deve essere mai una preghiera formale e ritualistica, bensì una profonda esigenza dello spirito, in conformità all’insegnamento di Gesù che ci raccomanda di chiedere al Padre la liberazione dal male, ossia dal peccato e dalla morte.

La fede cristiana ci insegna che il fine della venuta di Gesù nel mondo non è tanto la liberazione dalla malattia fisica, per quanto operata da diversi miracoli, quanto la salvezza dell’umanità dal peccato e dalla morte, come viene attestato dalla sua stessa testimonianza: “Io sono venuto perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10, 10). Gesù si è incarnato “per noi uomini e per la nostra salvezza”. È certamente molto significativo che il primo miracolo di Gesù nel Vangelo di Marco sia un esorcismo, cioè un gesto di liberazione dalla forza del male prima ancora che dalla malattia fisica del corpo. Le persone che Gesù guarisce non sono solo malati fisici, ma anche peccatori o indemoniati, ossia persone in qualche modo schiacciate da una schiavitù o da una debolezza. L’esperienza ci dice che la condizione concreta dell’uomo è quella di un’esistenza fragile e precaria, che fatica a ritrovare la sua unità, il suo volto, la sua bellezza, a liberarsi da solo dalla potenza del peccato e della morte. Gli uomini, perciò, hanno sempre cercato un salvatore, un liberatore, e Gesù è venuto incontro a questa ricerca manifestandosi con una serie di gesti concreti che hanno ridato salute fisica e salvezza morale a tante categorie di persone. I racconti dei Vangeli ci descrivono Gesù che guarisce i malati dalla lebbra e da ogni altra infermità; che restituisce la vita ai morti; che moltiplica pani, pesci e perfino il vino durante il banchetto nuziale a Cana di Galilea. Gesù rimette i peccati e conforta i peccatori; denuncia e smaschera l’ipocrisia e i vuoti formalismi. Egli è stato il servo sofferente descritto da Isaia, il quale ha preso su di sé le colpe degli uomini, le ha cancellate con il sacrificio della Croce, e ha ricreato l’amicizia con Dio Padre, sorgente e fondamento della vera salvezza.

Sicuramente, i dieci lebbrosi esprimono tutti un bisogno comune. Essi vogliono guarire. Ma la guarigione ha un esito positivo solo per il samaritano, al quale Gesù assicura che la sua fede lo ha salvato, e negativo invece per gli altri, che, presumibilmente, erano giudei, e del cui destino non si sa più nulla. Ciò sta a significare soprattutto che la semplice appartenenza alla Chiesa o il semplice battesimo non sono certificati di garanzia morale o salvacondotti per il paradiso. Non l'Eucaristia celebrata con il rito porta alla salvezza, ma l'Eucaristia vissuta con l'esistenza salva dalla disperazione e dalla solitudine. Mentre l'Eucaristia implicita nel mistero di una sofferenza accettata avvicina al cuore di Dio e sfocia nella fede, l'Eucaristia esplicita nella ripetizione meccanica del rito allontana, inaridisce l'animo, e riduce la fede a rito. L'incontro di Gesù con i lebbrosi è materiale per i più, e salvifico solo per lo straniero. Il miracolo fisico avviene per tutti, ma l'evento salvifico solo per uno. Non basta incontrarsi materialmente con Gesù, non basta, quindi, celebrare l'eucaristia e comunicarsi con il corpo e sangue di Nostro Signore, e neppure sperimentare la sua potenza taumaturgica, per arrivare alla salvezza. Occorre, invece, entrare in sintonia con Lui mediante l'obbedienza, la riconoscenza, la fede. La salute è un valore umano che appartiene al tempo e alla storia. Con i miracoli di Gesù si riacquista la vista, l'udito, anche la stessa vita. Ma alla fine si muore ugualmente. La salvezza è un valore sovra-umano, che appartiene all'eternità e supera le fasi storiche.

La seconda dimensione è l’atteggiamento di gratitudine: “si prostrò per ringraziarlo”. Il termine greco: euchariston, tradotto con “ringraziamento”, esprime bene la dimensione dell’esistenza eucaristica. In realtà, tutta la vita del cristiano deve essere un rendimento di grazie. Egli rende grazie a Dio alla fine di ogni celebrazione liturgica, dopo l’ascolto della Parola di Dio, alla conclusione della messa. Per un verso, la gratitudine e la lode sono l’atteggiamento che nasce dalla consapevolezza di aver ricevuto grandi doni, come canta il salmo 136, il grande Hallel, che celebra la creazione, la liberazione di Israele, il dono della terra e la provvidenza di Dio. Per un altro verso, la riconoscenza costituisce un contributo essenziale per lo stesso equilibrio interiore della persona. Una recente ricerca afferma che “più le persone riconoscono di essere grate, più esprimono soddisfazione nella loro vita. Le persone grate tendono ad essere felici”. La gratitudine aiuta sia a vedere positivamente la propria esistenza e quella del prossimo, sia a vivere l’esperienza di fede, perché la salvezza è grazia. San Paolo ricorda che l’empietà propria degli ultimi tempi è l’ingratitudine (2 Tm 3,2), mentre invita chi ha conosciuto la carità e la pace del Signore ad essere riconoscente, rendendo grazie a Dio per mezzo di Gesù (Col 3, 15.17). È un invito insistente, un vero ritornello che risuona costantemente nelle sue lettere: “Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie; questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Ts 5, 17-18).

La gratitudine, ora, non è solo un sentimento dell’anima, ma deve diventare anche uno stile di vita, una risposta di generosità agli interventi salvifici di Dio. È vero che Dio Padre, nella storia della salvezza, ha preso sempre l’iniziativa per venire incontro ai bisogni degli uomini. Il culmine dei suoi interventi salvifici è sicuramente l’evento di Cristo, ossia il mistero della sua incarnazione e della sua morte e risurrezione. Ricordiamo questo evento di salvezza ogni volta che celebriamo l’Eucaristia e ripetiamo le parole del Signore nell’Ultima Cena: “Questo è il calice del mio sangue…versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”. Ma è anche vero che Egli ha sempre voluto la libera cooperazione dell’uomo, ha chiesto l’assunzione attiva di responsabilità in risposta al suo amore, alla sua iniziativa. Anche Gesù esige dai discepoli di perdonare (Mt 18, 21-35), di riconciliarsi con il fratello che li ha offesi (Mt 5, 23-24), di aiutare i bisognosi (Mt 25, 31-46; Lc 10, 25-37).

L’esistenza eucaristica, quindi, è una felice integrazione di preghiera ed azione, celebrazione e testimonianza, rito e pratica. A conclusione di questo convegno, perciò, ci impegniamo a passare dall’Eucaristia celebrata all’Eucaristia vissuta, imparando a provare gioia nel donare più che nel ricevere, nel perdonare più che nel vendicarsi, nel servire più che nell’essere serviti. All’uscita dalla chiesa, per noi diventano altari la famiglia, la scuola, il posto di lavoro, i luoghi dello sport e del divertimento. Su questi altari del nostro quotidiano, vogliamo deporre l’offerta d’una esistenza di fede, speranza e carità. La deponiamo con l’aiuto e l’intercessione di Maria, Madre della Chiesa e madre nostra.