Funerale di Mons. Isidoro Marongiu

Parrocchia di Narbolia, 1° luglio 2014

Ci ritroviamo questa sera per ascoltare la Parola di Dio nell’ambito della celebrazione eucaristica con la quale accompagniamo spiritualmente don Isidoro Marongiu nel suo ultimo viaggio terreno. Sono diverse le circostanze nelle quali e con le quali Dio si rende presente nella nostra vita. Ovviamente, vorremmo che queste fossero tutte circostanze di gioia. Ma la

vita non è per nessuno solo gioia, salute, successo, e i cristiani non hanno nessuna corsia preferenziale per camminare lontano dalle incertezze e dalle prove della vita. Semmai, hanno qualche motivazione di fiducia e di speranza in più, ma non certamente qualche prova e sofferenza in meno. Tutti i momenti della vita, tuttavia, sono momenti di grazia e li dobbiamo vivere come una specie di grammatica che ci aiuta a leggere le parole e i gesti di Dio sia nelle stagioni del freddo che in quelle del caldo, sia nei giorni della gioia che in quelli del dolore. Questa sera è la vita sacerdotale di don Isidoro che diventa la grammatica con la quale Dio ci rivolge il suo messaggio. Don Isidoro ha svolto i suoi 53 anni di ministero attivo in parte come viceparroco a Bonarcado e Ghilarza, in parte come direttore spirituale nel nostro Seminario Diocesano, in parte, infine, ma soprattutto come parroco nelle parrocchie di Busachi, San Vero Milis, Siamanna. Io non l’ho conosciuto nell’esercizio di questo ministero. L’ho conosciuto quando era già ritirato e colpito dalla malattia. Fino a quando ha potuto parlare mi ha accolto sempre con devozione e gratitudine. L’ultima volta che l’ho incontrato, poco tempo fa, ho percepito la parola “grazie” dalle sue labbra. Una parola che riassume tutta la vita del sacerdote, perché il ministro di Dio vive di grazia e benedizione, e fa partecipe di questi doni le persone affidate al suo ministero di misericordia.

“Prepàrati all’incontro con il tuo Dio, Israele”. Questo invito del profeta Amos, che abbiamo ascoltato a conclusione della prima lettura, lo sentiamo rivolto a noi, chiamati a vivere, secondo S. Agostino, tra le tribolazioni del mondo e le consolazioni di Dio. L’incontro con il Signore è senz’altro un incontro di perdono e di accoglienza. Dal vissuto umano di Gesù emerge chiaramente che Egli ha rivelato l’amore di Dio Padre, prendendosi cura dell’uomo. Prendersi cura è più impegnativo di operare una guarigione. La cura esercitata secondo lo stile di Gesù significa custodire, farsi carico, toccare, fasciare, dedicare attenzione, proprio come faceva Egli, allorché si fermava a cogliere il grido del cieco nato o del lebbroso che lo rincorrevano per strada.

Il paralitico della piscina probatica, di cui ci parla l’evangelo di San Giovanni, era malato da trentotto anni e nessuno si prendeva cura di lui. Quando infatti Gesù si ferma e gli chiede se vuole guarire, egli risponde: “Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l'acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me “ (Gv 5, 7).

All’inizio della sua predicazione in Galilea, arriva vicino a Gesù un lebbroso e lo supplica in ginocchio. Era un escluso, un impuro, e, perciò, doveva essere allontanato dalla convivenza umana. Anche chi si avvicinava a lui rimaneva impuro. Ma quel lebbroso ebbe molto coraggio, trasgredì le norme della religione e si portò vicino a Gesù per dirgli: “se vuoi, puoi guarirmi”! Ossia: non c'è bisogno che mi tocchi; se vuoi, puoi guarirmi lo stesso dal male della lebbra che mi opprime, e dal male della solitudine che mi condanna all’esclusione e all’isolamento (Mc 1, 40). Mosso da compassione, Gesù lo libera da entrambi i mali, quello morale della solitudine e quello fisico della malattia. Non solo, ma per poter aiutare quell'escluso e, così, rivelare un nuovo volto di Dio, trasgredisce le norme della sua religione e tocca il lebbroso (1, 41-42). In ultima analisi, Gesù non solo guarisce, ma vuole che la persona guarita possa di nuovo convivere con gli altri. Reintegra la persona nella convivenza.

Questi sono due dei tanti episodi emblematici del vissuto umano di Gesù, che motivano la sua domanda ai discepoli di ieri e di oggi: “perché avete paura, gente di poca fede”? Forse, abbiamo paura perché siamo cristianisti e non cristiani, secondo un’osservazione di Remy Brague. Cristianisti sono coloro che custodiscono propri convincimenti, proprie abitudini religiose, propri schemi di pensiero, propri piani pastorali, pronti a levare barriere di esclusione e di separazione. Ma Gesù non ha escluso nessuno; ha abbattuto ogni muro di divisione. A tutti ha dato speranza. A tutti ha ridato futuro. A tutti ha insegnato a guardare avanti e a guardare in alto. Cristiani sono coloro che hanno incontrato la persona di Gesù, Figlio di Dio e nostro Salvatore. Ormai è divenuto un “luogo teologico” della spiritualità cristiana il detto di Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas est, secondo il quale all’inizio della nostra fede e della storia del cristianesimo non c’è un programma politico da realizzare, una ideologia da condividere, un ideale da seguire. C’è l’incontro con una persona. Perciò, se vogliamo rimanere fedeli alla nostra origine, dobbiamo incontrare Gesù e dare anche agli altri la possibilità di incontrarlo.

Nella celebrazione liturgica di ieri abbiamo ripetuto le parole del ritornello al Salmo responsoriale: “Il Signore mi ha liberato da ogni paura”. Papa Francesco, rivolgendosi ai fratelli Vescovi, ha domandato loro: “Di che cosa abbiamo paura? E se ne abbiamo, quali rifugi cerchiamo, nella nostra vita pastorale, per essere al sicuro? Cerchiamo forse l’appoggio di quelli che hanno potere in questo mondo? O ci lasciamo ingannare dall’orgoglio che cerca gratificazioni e riconoscimenti, e lì ci sembra di stare sicuri? Cari fratelli vescovi, dove poniamo la nostra sicurezza? La testimonianza dell’Apostolo Pietro ci ricorda che il nostro vero rifugio è la fiducia in Dio: essa allontana ogni paura e ci rende liberi da ogni schiavitù e da ogni tentazione mondana.”

D’altra parte, secondo Papa Francesco, avere fede significa credere in Gesù, “credere che veramente ci ama, che è vivo, che è capace di intervenire misteriosamente, che non ci abbandona, che trae il bene dal male con la sua potenza e con la sua infinita creatività. Significa credere che Egli avanza vittorioso nella storia insieme con “quelli che stanno con lui … i chiamati, gli eletti, i fedeli” (Ap 17, 14).

Cari fratelli e sorelle,

Sicuramente, don Isidoro è stato un chiamato, un eletto, un fedele. Ora è salito in cielo per unirsi a tanti nostri confratelli sacerdoti, che ci hanno preceduto nel segno della fede. Con essi veglia sul cammino delle nostre comunità, che affrontano il mare avverso della rassegnazione, della mancanza di fiducia, della paura del futuro. Ricorda a tutti noi che la nostra patria è lassù, in cielo, e che al timone della barca in movimento siede Gesù, vincitore della morte. Questa è la nostra consolazione e la nostra speranza!