Concelebrazione del giovedì santo

Cattedrale di Oristano, 29 marzo 2018

Questa celebrazione dell’Eucaristia nella Chiesa Cattedrale manifesta in modo altamente simbolico l’unità della Chiesa arborense, raccolta intorno al Vescovo e ai presbiteri della Diocesi. I momenti in cui manifestiamo e sperimentiamo l’unità della Chiesa non sono molti, data la vastità della Diocesi, la dislocazione dei luoghi, la diversa articolazione dei tempi del ministero.

Perciò, vogliamo vivere con forte intensità spirituale questo momento di preghiera e di grazia, che ci aiuta a prendere coscienza della nostra identità cristiana e sacerdotale. In effetti, il trovarci uniti nella preghiera di ringraziamento per il dono dell’Eucaristia manifesta che la fraternità sacerdotale non è un’esigenza pragmatica di natura esistenziale, ma una conseguenza della fraternità sacramentale, che sta alla base del presbiterio. A partire, poi, dalla natura comunionale della Chiesa, come membri del popolo santo di Dio, facciamo parte di un’unica grande famiglia di battezzati, nella quale lavoriamo gli uni per gli altri e con gli altri, ci salviamo insieme o ci perdiamo insieme.

Papa Francesco ha ribadito più volte la necessità di vivere la diocesanità. L’appartenenza alla Diocesi è come la radice che tiene uniti tutti i rami della pianta. È precisamente l’essere dipendenti da questa unica radice che ci permette di dare frutti di grazia, di non disperdere le forze, di vivere sentimenti di comunione fraterna. Uno che volesse fare il contestatore di professione e si chiudesse nell‘isolamento della sua autosufficienza è come un operario che vuole lavorare al di fuori della vigna. Ma Gesù ha mandato nella sua vigna “operai” non uomini “singoli”(cfr. Mt 20, 1-16). Ha inviato i suoi discepoli a due a due, non individualmente (cfr. Mc 6, 7-13). Come è feconda e contagiosa la testimonianza d’un presbiterio unito, d’una comunità unita, e come, per converso, dà cattivo esempio un presbiterio disunito, una comunità divisa! Ogni sforzo per vivere e lavorare uniti è benedetto dal Signore. Con ragionevole probabilità, questo potrebbe essere l’ultimo giovedì santo del mio ministero episcopale a Oristano. Chiedo, perciò, al Signore la grazia di lasciare in eredità un presbiterio unito e felice, una comunità ecclesiale armonica, capace di “osare il Vangelo” e creare futuro.

Abbiamo meditato tante volte sul messaggio che ci proviene dall’odierna Parola di Dio. Le profezie e il Vangelo ci ripetono che la missione di Gesù è quella di guarire i malati nel corpo e nello spirito, di difendere il diritto e la giustizia degli oppressi, di perdonare e convertire i peccatori pentiti. Davanti a Gesù nessuno è perduto per sempre, e ognuno può ricominciare da capo. Egli non è venuto a premiare i giusti ma a convertire i peccatori. La peggiore illusione che possiamo nutrire è quella di crederci giusti e spiritualmente autosufficienti. Sull’esempio di papa Francesco, invece, dobbiamo avere il coraggio di riconoscerci peccatori e chiedere il perdono della colpa e la conversione del cuore. Stranamente, ciò che abbiamo in comune e ciò che, allo stesso tempo, ci ha separato e ci separa è l’idea di sacerdozio. Per lunghi secoli si è mantenuta la distinzione tra coloro che sanno (i chierici) e coloro che credono (i laici), coloro che parlano e coloro che ascoltano, coloro che comandano e coloro che obbediscono. Eppure, il sacerdozio comune dei fedeli è una consacrazione originaria, propria di tutti i battezzati. Tutti noi siamo chiamati a vivere il sacerdozio battesimale, non rivendicando competenze e innalzando muri divisori, ma condividendo la missione dell’annuncio del Vangelo. Anche una semplice parola di conforto, una visita di amicizia, un aiuto materiale sono gesti di consacrazione sacerdotale, non riservati ai preti, ma praticabili da tutti i discepoli di Gesù. Se è vero che il sacerdote, fondamentalmente, è sempre un cristiano, è anche vero che il cristiano, fondamentalmente, è sempre un sacerdote. Il problema sorge quando il sacerdote si dimentica di essere un cristiano e il cristiano si dimentica di essere un sacerdote. Il primo cade nell’eccesso del potere, il secondo cede all’abdicazione del dovere.

La testimonianza comune del consacrato dal sacramento dell’ordine e del consacrato dal sacramento del battesimo si manifesta in modo particolare nel vivere da discepoli che seguono Gesù, prendendo la propria croce ogni giorno. “Prendere la croce” non è un modo di dire, ma un modo di vivere. Può parlare della croce chi la vive nella sofferenza della sua carne e non chi la proclama con la retorica delle sue parole. Può parlare della croce chi non ha voce per esaltarla, ma solo un fisico distrutto per evocarla. La croce è il simbolo più conosciuto del cristianesimo, ma anche il messaggio più difficile da comunicare, perché promette la risurrezione con la morte, la gioia spirituale con la sofferenza materiale, la salvezza della vita con la sua perdita, la vittoria del futuro con la sconfitta del presente. La croce rappresenta il paradosso della fede, il mistero dell’agire di Dio, che opera con l’umiltà dei santi e la forza dei deboli. “Perdere la vita” agli occhi degli uomini è salvarla agli occhi di Dio. Il verbo “salvare” è diventato comune dall’uso del computer, perché la domanda più frequente che ci viene rivolta e la risposta che dobbiamo dare è quella di salvare uno scritto, una foto, un documento. Ma mentre per salvare un documento basta un clic, per salvare la nostra vita è stata necessaria la morte di Gesù.

La Sapienza chiama giusto chi è provato da Dio, e Gesù chiama suoi discepoli coloro che lo seguono prendendo la croce su di sé. L’autore della lettera di Pietro chiama “beati coloro che soffrono per la giustizia”. Questa beatitudine, tuttavia, non consacra il dolore per il dolore, la sofferenza per la sofferenza, ma il dolore e la sofferenza per la pratica della giustizia e le opere di bene. “È meglio soffrire operando il bene piuttosto che fare il male”, precisa il testo della Scrittura. La sofferenza nel difendere la causa della giustizia e nell’operare il bene costituisce la forma incruenta del martirio dei nostri giorni, il modo più credibile di rendere ragione della nostra speranza e manifestare al mondo la bellezza della nostra fede.

Cari fratelli e sorelle,

la Diocesi ha bisogno di testimonianze credibili di vita cristiana, ossia di fatti di Vangelo, come, per esempio, la sofferenza redenta dalla grazia, l'amore gratuito e il perdono dei nemici, l'accettazione della morte nella speranza della risurrezione, la solidarietà con chi ha bisogno di pane e lavoro. Ognuno di noi può essere chiamato a essere protagonista d’uno di questi fatti e testimone convinto e coraggioso di radicalismo evangelico. Sia noi, sacerdoti che serviamo agli altari delle chiese, che voi, sacerdoti che servite agli altari della vita, siamo tutti chiamati a praticare la misericordia e la giustizia, a portare Dio verso gli uomini prima di portare gli uomini verso Dio, a pregare con le parole del cuore, a donare senza aspettare ricompensa. Dio benedica noi sacerdoti, che viviamo da cristiani, e voi cristiani, che vivete da sacerdoti.