Commemorazione dei defunti

Cimitero cittadino 2 novembre 2010

“Contemplare Dio non da straniero”. Questa è la profezia di Giobbe, che, abbandonato da tutti, ripone la sua speranza in un intervento di Dio. Gli fa eco San Paolo affermando che “la speranza non delude”, perché se Dio è venuto incontro quando eravamo ancora suoi nemici, ossia peccatori, a maggior ragione verrà incontro ora che siamo suoi amici, ossia viviamo in lui e con lui.

Gesù, infine, nel discorso sul pane di vita, assicura di non respingere chi si rivolgerà a lui, ma di risuscitarlo “nell’ultimo giorno”. Questo è il nucleo del messaggio della Parola di Dio di questa celebrazione con la quale ci uniamo nella preghiera ai nostri fratelli e sorelle che ci hanno preceduto nel segno della fede. Da questo messaggio emerge chiaramente che la speranza, in quanto tale, non è la salvezza dell’uomo, ma una via che conduce alla salvezza. San Paolo dice che siamo salvati nella speranza e non che la speranza ci salva. Il salvatore è Gesù, e la speranza è la via che ci porta al salvatore. Il paradiso, il purgatorio, l’inferno non sono luoghi, non sono situazioni, bensì il risultato di un rapporto interpersonale, che è felicità, se accolto, dannazione, se rifiutato, purificazione, se è tradito. In breve, la speranza può essere definita: la fedeltà a Dio come risposta alla fedeltà di Dio. La fedeltà di Dio si rivela nella storia della salvezza, ma soprattutto nel culmine di questa storia, cioè nella persona e nell’evento di Cristo.

La difficoltà a nutrire e vivere questa speranza, ora, sta soprattutto nella collocazione temporale della risurrezione. Gesù, infatti, promette di risuscitare i fedeli “nell’ultimo giorno”. Vale a dire che il cristiano deve condurre tutta la vita nell’ombra della morte e solo alla fine dell’esistenza potrà vedere la luce della risurrezione. In realtà, noi abbiamo bisogno di vivere da risorti oggi, di godere la pace e la salute oggi, di essere liberati dal male oggi. La sfida che ci viene lanciata, perciò, consiste nel riuscire a vivere da risorti, pur camminando nell’ombra della morte. In altri termini, siamo chiamati a sperare oltre la morte ma senza eliminare la morte. Come Gesù è arrivato alla risurrezione senza evitare la sofferenza della morte in croce, così il cristiano arriva alla risurrezione solo dopo la sofferenza della morte. Non è possibile eliminare dalla vita l’esperienza del buio, della fatica, del dolore, dell’incertezza. L’esperienza umana più condivisa non è quella della gioia per il successo e la salute, bensì quella del dolore per la morte delle persone care, cioè dei parenti, amici, conoscenti. La Chiesa non promette agli uomini, in nome della fede cristiana, una vita di successo su questa terra; non ci sarà un mondo utopico, perché la nostra vita terrena sarà sempre segnata dalla Croce. Allo stesso tempo, avendo ricevuto il Battesimo e l’Eucaristia, il processo della risurrezione è già cominciato in qualche modo.

L'accettazione della sofferenza e della morte come sfida alla nostra aspirazione di immortalità, tuttavia, non è una scelta di rassegnazione. È una scelta di buon senso, che accetta nella propria vita la presenza di un altro, ed è una scelta di fede, che, sempre nella stessa vita, accetta la presenza di un Altro, sia nel suo inizio che nella sua fine. La vita non ci appartiene. Essa non ha avuto inizio quando lo abbiamo deciso noi, e non ha termine neppure quando lo stabiliamo noi. L'esistenza umana è come la volta del firmamento sulla quale appendiamo le stelle dei nostri desideri e dei nostri progetti, la tela sulla quale disegniamo i contorni del nostro futuro. Ma questo firmamento, questa immensa tela celeste sulla quale disegniamo il mosaico della nostra vita e della nostra felicità ci sono stati concessi solo in prestito. Non ci appartengono. Questo è il limite fondamentale della creaturalità, che include tutti gli altri limiti, i quali, in qualche modo, sono da esso derivati. Se si accetta questo limite fondamentale, si accettano anche gli altri limiti ad esso a vario titolo connessi.

In ultima analisi, la vita umana è un disegno a quattro mani: le due mani invisibili di Dio e le due mani visibili dell'uomo. Insieme, esse disegnano una vita, che è frutto di due amori ed opera di due libertà. Le mani di Dio non operano da sole. Ma nemmeno le mani dell'uomo operano da sole. Dio opera per mezzo dell'uomo, e l'uomo agisce sotto la guida invisibile di Dio. Il mosaico che risulta da questa duplice paternità è contemporaneamente aperto al futuro di Dio e alla libertà dell'uomo.

Io penso che la speranza nella vita eterna oltre che di cappelle e chiese abbia bisogno di luoghi popolari dove poter essere condivisa e trasformata in preghiera. Il luogo più popolare e più comune è senz’altro il cimitero, città della memoria e del legame tra i vivi e i morti, tra il tempo e l’eternità. Qualche giorno fa mi ha fatto riflettere una dichiarazione del sindaco di Avetrana che ha detto: "Siamo riusciti a tempo di record a creare questa struttura che ospiterà i resti di Sarah, una tomba all'entrata del cimitero perché Avetrana non vuole dimenticare neanche quando si spegneranno i riflettori su questa tragica vicenda".

La costruzione della tomba per la sepoltura dei propri cari è il gesto più alto della civiltà umana. Molti storici concordano nel fissare l'inizio della civilizzazione e delle manifestazioni culturali e religiose dell'homo sapiens proprio al momento in cui esso comincia a seppellire i morti della propria specie. Le prime tombe mostrano che nella preistoria i vivi credevano a una sopravvivenza dei loro defunti, dal momento che le tombe contenevano tracce di alimenti e di utensili destinati ad essere usati dai defunti inumati. La Chiesa, custode gelosa di civiltà e promotrice feconda di progresso, consiglia vivamente di conservare la pietosa consuetudine di seppellire i morti nei cimiteri. Infatti, “i corpi dei defunti devono essere trattati con rispetto e carità nella fede e nella speranza della risurrezione. La sepoltura dei morti è un’opera di misericordia corporale; rende onore ai figli di Dio, templi dello Spirito Santo.”

La legittima possibilità di conservare le ceneri del defunto a casa, prevista e tutelata dalla legge, è di fatto un abbandono di quella dimensione comunitaria che nella tomba del cimitero trova il suo luogo di memoria e di pietà collettiva. Così, infatti, ha sempre pensato l'umanità di sé fin dalle sue origini quando, rifiutandosi di arrendersi all'insignificanza biologica, ha costruito sulla terra quei recinti sepolcrali e poi quei monumenti alla morte, che, dalle piramidi d'Egitto alle tombe greche, romane ed etrusche, sono a testimoniare la differenza che l'uomo ha sempre percepito tra sé e l'animale. Può il singolo individuo gestire la morte che è stata sempre gestita in modo comunitario, con riti a cui si partecipa collettivamente per diluire il dolore con il conforto? La morte è un evento ineluttabile che neppure l'amore più grande di questa terra sa reggere e contenere. Per questo gli uomini, tra i viventi gli unici che sanno di dover morire, hanno fatto comunità e hanno lasciato nelle necropoli non i loro resti storici ma memoria perenne della condizione umana. Questa memoria rischia di essere abolita, anche se ciò avviene per amore. Perché potrebbe non essere vero amore, ma semplice possesso, voler trattenere in qualche modo chi, precedendoci, ci ha ricordato la nostra ineluttabile condizione.

Animati da queste convinzioni torniamo ogni anno in questo cimitero cittadino, per pregare per i nostri morti, condividere la speranza nella risurrezione, onorare la memoria di chi ci ha preceduto in questa vita. La preghiera che unisce i nostri sentimenti ci assicura che “se ci rattrista la certezza di dover morire ci consola la promessa dell’immortalità futura”. Chiediamo a Dio nostro Padre di vincere la tristezza per la morte e ottenere la consolazione per la promessa dell’immortalità.