Commemorazione dei defunti

Cimitero cittadino, 2 novembre 2011

Le parole di Gesù che abbiamo testé ascoltato: “questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno” risuonano come un insegnamento di fede e di speranza.

Secondo questo insegnamento, non basta vedere il Figlio, ossia non basta conoscere Gesù, bisogna sopratutto decidersi a seguirlo; bisogna credere in Lui, perché è Lui che risusciterà il credente nell’ultimo giorno. Se siamo venuti in questo cimitero, lo dobbiamo certamente alla fedeltà alla tradizione del culto dei morti, ma lo dobbiamo sopratutto alla forza della nostra fede nel Cristo, morto e risorto per la nostra salvezza. La conservazione della memoria che prolunga nel tempo la relazione con i nostri morti è garantita dalla fede nella risurrezione. Essa non si coltiva certamente nelle acque del mare, che disperdono le ceneri, e neppure nel salotto di casa che le privatizza nell’argento d’un’urna, ma in questo luogo di preghiera comunitaria, che lega la terra al cielo, i sentimenti dei vivi con il ricordo dei morti. Non è senza significato che, nella liturgia, la commemorazione dei defunti venga subito dopo la festa di tutti i santi. La successione delle celebrazioni, infatti, vuole sottolineare che il cielo si piega sulla terra, che la vita eterna illumina la vita terrena. Non per nulla, Santa Teresa del Bambino Gesù soleva dire: “non muoio, entro nella vita”. In ultima analisi, la vostra presenza a questa celebrazione è motivata dalla fede in Gesù, che, solo, ha parole di vita eterna, capaci di vincere la disperazione e le illusioni.

Un grande pensatore ebreo del Novecento, Franz Rosenzweig, apre la sua grande opera La stella della redenzione con le parole: “dalla morte”, e la chiude con le parole: “verso la vita”. Ecco: in queste parole è racchiuso l’itinerario dell’uomo. Egli è un pellegrino dalla morte verso la vita. Il suo coraggio non sta nel fuggire la morte, ma nel prenderne sul serio la sua tragicità. Blaise Pascal scrive che "gli uomini non potendo guarire la morte preferiscono non pensarci". Ma, se guardiamo negli occhi la morte, vivere non sarà più soltanto imparare a morire ma un lottare per dare senso alla vita. Dove nasce la domanda, dove l’uomo non si arrende di fronte al destino, lì si rivela la dignità della vita, il senso e la bellezza di esistere. Lì l’uomo capisce di non essere solo “gettato” verso la morte, ma chiamato alla vita; lì si riconosce come un “mendicante del cielo”. L’uomo è un cercatore di qualcosa che dia valore alle opere e ai giorni, offra dignità e bellezza alla tragicità del vivere e del morire. Perciò la condizione dell’essere umano è quella del pellegrino, d’un cercatore della patria lontana.

Se l’uomo è un pellegrino verso la vita e un mendicante del cielo, scrive Mons. Bruno Forte, non può fermare il cammino, non può sentirsi arrivato, possessore di un oggi che arresta la fatica del viaggio. Egli è un esule su questa terra. Secondo una tradizione ebraica, si dice che alcuni giovani chiesero a un rabbino quando fosse cominciato l’esilio di Israele. “L’esilio di Israele - rispose il Maestro - cominciò il giorno in cui Israele non soffrì più del fatto di essere in esilio”. L’esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non c’è più nel cuore la nostalgia della patria. L’esilio è di chi ha dimenticato il destino, la meta più grande, il cielo del desiderio e della speranza. Il filosofo tedesco Martin Heidegger, parlando della “notte del mondo” nella quale ci troviamo, dice che essa è l’assenza di patria, perché il dramma dell’uomo moderno non è la mancanza di Dio, ma il fatto che egli non soffra più di questa mancanza. Il dramma è di non avvertire più il bisogno di superare la morte, è di considerare patria e non esilio questo tempo presente. La malattia mortale consiste nell’illusione di sentirsi arrivati, soddisfatti del proprio presente. Si è morti quando il cuore non vive più l’inquietudine e la passione del domandare.

L’uomo che si ferma, sentendosi padrone e sazio della verità, l’uomo per il quale la verità non è più Qualcuno, da cui essere posseduto sempre più profondamente, ma qualcosa da possedere, quell’uomo ha ucciso in se stesso non solo Dio, ma anche la propria dignità di essere umano. In quanto pellegrino di fede e di speranza, l’uomo è in un continuo viaggio, è chiamato permanentemente ad uscire da sé, ad interrogarsi, ad essere in cerca di una patria. Martin Lutero, sul letto di morte, ha avuto l’umiltà di riconoscere che “siamo dei poveri mendicanti.” Andrea Parodi, nell’ultimo concerto alla vigilia della sua morte, ha avuto il coraggio di cantare l’inno alla vita, gracias a la vida,: “grazie alla vita che mi ha dato tanto/ mi ha dato il riso/ e mi ha dato il pianto”. Sono visioni di fede e umanità, professate alla sera della vita, quando si vede tutto alla luce della verità che non mente.

"Non so chi mi ha messo al mondo, confessava Blaise Pascal, né cosa è il mondo, né cosa sono io stesso; sono in una terribile ignoranza di tutto: non so cos'è il mio corpo, i miei sensi, la mia anima, e persino questa parte di me che pensa ciò che dico, che riflette su di tutto e su di se stessa. Vedo questi spaventosi spazi dell'universo che mi racchiudono, ed io mi trovo in un angolo, senza sapere perché sono in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché questo poco tempo che mi è concesso di vivere mi è dato ora piuttosto che in un altro momento di tutta l'eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Tutto ciò che so è che debbo presto morire, ma ciò che ignoro di più è proprio questa morte che non saprei evitare".

Si dice di Cristoforo Colombo che quando partì per il suo viaggio intorno al mondo non sapeva dove andava, e quando arrivò non sapeva dov’era. Il cristiano, invece, sa dove va, e sa anche dov’è, quando arriva. Il suo cammino è un cammino di fede e di speranza e la sua patria, secondo l’insegnamento dell’Apostolo, è nel cielo (Fil 3, 20). Sull’esempio di Gesù, che non aveva dove posare il capo, il cristiano non si lega a nessun luogo, perché ogni luogo è patria e ogni patria è luogo. Con la sapienza di Giobbe, alla fine del viaggio tra le consolazioni di Dio e le tribolazioni del mondo, il cristiano nutre la speranza che i suoi occhi contempleranno Dio “non da straniero” (Gb 19, 27). Egli è e resta in questo mondo un cercatore di Dio, un mendicante del Cielo, sulle cui labbra risuonerà sempre la struggente invocazione del Salmista: “Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 27, 8s). Anche se gli attori dello spettacolo Sul concetto di volto nel Figlio di Dio rivolgono all’immagine maestosa del Cristo di Antonello da Messina la domanda accorata: “perché ci hai abbandonato?”, il regista dell’opera ribadisce che “noi siamo nutriti dell’immagine di Cristo”. In realtà, il volto del Signore, riscoperto da S. Agostino come bellezza sempre nuova e sempre antica, mai uguale eppur sempre lo stesso, veglia su ogni stagione del cuore. “La sua grazia rimane per sempre, la sua fedeltà è fondata nei cieli” (Sal 88, 3).

Cari fratelli e sorelle,

concludo questa riflessione sulla visione cristiana della vita e della morte con la preghiera di S. Anselmo, autentico cercatore di Dio, che dà voce al salmo che abbiamo recitato: “Il Tuo volto, Signore, io cerco. Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come cercarTi, dove e come trovarTi ... Che cosa farà, o altissimo Signore, questo esule, che è così distante da Te, ma che a Te appartiene? Che cosa farà il Tuo servo tormentato dall’amore per Te e gettato lontano dal Tuo volto? Anela a vederTi e il Tuo volto gli è troppo discosto. Desidera avvicinarTi e la Tua abitazione è inaccessibile... Insegnami a cercarTi e mostraTi quando Ti cerco: non posso cercarTi se Tu non mi insegni, né trovarTi se non Ti mostri. Che io Ti cerchi desiderandoTi e Ti desideri cercandoTi, che io Ti trovi amandoTi e Ti ami trovandoTi”.