Concelebrazione del giovedì santo

Cattedrale di Oristano, 24 marzo 2016

Siate i benvenuti a questa solenne concelebrazione nella quale consacro il crisma, cioè l’olio benedetto da utilizzare per tutto l’anno per i Sacramenti del Battesimo, Cresima e Ordine Sacro e gli altri oli usati per il Battesimo, l’Unzione degli Infermi e per i Catecumeni.

Oggi è la festa del sacerdozio ordinato, unita a quella del sacerdozio comune o battesimale dei fedeli, perché Gesù Cristo ha fatto di noi, nuovo popolo di Dio, “un regno di sacerdoti per Dio suo Padre” (Ap 1, 6; cfr. 5, 9-10). In quanto battezzati, noi siamo stati consacrati mediante la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo, per essere un’abitazione spirituale e un sacerdozio santo, e poter così offrire in sacrificio spirituale tutte le nostre attività (cfr. LG, 10). Una immagine bella di come si debba concepire la collaborazione tra sacerdozio ordinato e sacerdozio comune dei fedeli, ossia tra sacerdoti e laici, è la preghiera di Mosè sul monte, durante la battaglia degli israeliti con gli amaleciti. Mosè pregava con le braccia alzate e, finché riusciva a mantenere le braccia alzate, gli israeliti vincevano la battaglia. Quando abbassava le braccia per stanchezza, gli israeliti perdevano la battaglia. Allora Aronne e Cur gli si misero a fianco e gli tenevano le braccia alzate perché Giosuè potesse continuare a combattere e sconfiggere gli amaleciti (Es 17, 10-13). E, così avvenne. Mosè perseverò nella preghiera per tutto il giorno, e Giosuè vinse la battaglia.

Se, ora, vogliamo trarre un insegnamento da questo episodio biblico, vediamo come anzitutto il compito di Mosè non sia stato quello di combattere la battaglia in prima persona. Il suo dovere e la sua missione erano la perseveranza nella preghiera di intercessione. Non doveva e non voleva intervenire direttamente per orientare le sorti della battaglia. Queste erano nelle mani di Giosuè. Mosè prega, Aronne e Cur lo aiutano perché lui continui a pregare. Né Mosè prende il ruolo di Giosuè. Né Giosuè prende il ruolo di Mosè. Essi compiono due azioni diverse ma con un fine unico. Collaborano per raggiungere un obiettivo comune.

Questa forma particolare di collaborazione dà significato e motivazioni su come si debbano concepire la corresponsabilità e la collaborazione nelle nostre parrocchie, caldamente raccomandate dal nostro Sinodo Diocesano. Nell’esercizio del suo ministero, il sacerdote ha bisogno dell’aiuto dei laici per la missione di annuncio del Vangelo e di presidenza della comunità. Ma né il sacerdote si deve sostituire ai laici, né i laici si devono sostituire ai sacerdoti. L’esperienza ci dice che sono da evitare sia i chierici che si laicizzano sia i laici che si clericalizzano. Sacerdoti e laici devono collaborare, ognuno secondo la sua vocazione e missione. La giustificazione teologica ed ecclesiale della collaborazione trova fondamento nei documenti del Concilio Vaticano II, e in modo particolare nella dottrina del sacerdozio comune dei fedeli. La costituzione sulla Chiesa scrive: “Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini (cfr. Eb 5, 1-5), fece del nuovo popolo «un regno e sacerdoti per il Dio e il Padre suo» (Ap 1, 6; cfr. 5, 9-10).

Infatti per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce (cfr. 1Pt 2, 4-10). Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr. At 2, 42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr. Rm 12, 1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in essi di una vita eterna (cfr. 1Pt 3, 15) Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio

modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’Eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa” (LG, 10).

Il Vangelo che abbiamo proclamato ci riferisce che Gesù torna in Galilea, nella sua città di Nazareth, e vi conduce una vita che possiamo definire da “ebreo praticante”. L’annotazione che Egli andava ogni sabato in sinagoga mette in evidenza che egli osservava le prescrizioni della legge mosaica ed era fedele al culto settimanale. Perciò, Egli agiva come Salvatore e il Redentore non solo quando guariva i malati, risuscitava i morti, riabilitava i peccatori, ma anche quando conduceva la sua vita feriale di “ebreo praticante”. Proprio la sua frequenza della Sinagoga spiega, in certo qual modo, la reazione sdegnata nell’episodio della cacciata dei venditori dal tempio (Mc 11, 15-19). Con il suo gesto forte, Egli non solo voleva manifestare indignazione, ma soprattutto compiere un’azione pedagogica per insegnarci a pregare Dio con la vita, perché “è giunto il momento in cui i veri adoratori adorano il Signore in spirito e verità” (cfr. Gv 4, 23). Il suo zelo ci insegna a vivere autenticamente la nostra religiosità e a non trasformarla in una ricerca di consolazioni spirituali. Proviamo a contare le volte che entriamo in chiesa per ringraziare e lodare il Signore, e quelle, invece, in cui vi entriamo per chiedere grazie o il premio per le nostre opere buone. Penso che queste seconde superino le prime. Sappiamo chiedere. Non sappiamo ringraziare. Gesù ci ricorda che dobbiamo saper chiedere e saper ringraziare!

Nel passo di Isaia commentato da Gesù nella Sinagoga c’è un particolare molto interessante. Mentre, nella trasfigurazione sul monte Tabor è Dio Padre che lo proclama suo figlio prediletto e chiede che venga ascoltato (Mt 17, 5), qui è Gesù stesso che si proclama il Messia, venuto per inaugurare l’anno di grazia del Signore. Il testo di Isaia considera l’anno di grazia anche come il “giorno di vendetta per il nostro Dio” (Is 61, 2). Ma Gesù lascia cadere questo accostamento e si ferma alla proclamazione dell’anno di grazia. Ora, l’evocazione dell’anno di grazia e l’eliminazione del giorno di vendetta assume il carattere d’un richiamo solenne, soprattutto in quest’anno giubilare, a essere operatori di misericordia. Il testo conciliare che abbiamo ricordato precisa che noi esercitiamo il sacerdozio “con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa” (LG, 10). In effetti, come comunità diocesana, abbiamo adottato un programma di carità operosa. Per la Quaresima giubilare abbiamo proposto di sostenere una famiglia con un’offerta per l’emporio della Caritas. Spero che ognuno abbia sentito l’esigenza di compiere un’opera di carità e che non ritenga, però, di aver esaurito il suo dovere di testimone di misericordia con quest’opera di carità. Ogni giorno abbiamo bisogno di amare ed essere amati, di perdonare ed essere perdonati. L’Eucaristia che celebriamo, allora, sia il pane di viaggio che ci accompagni nel cammino di conversione e ci renda uomini e donne di perdono, di misericordia, di pace.