Natale 2006

Cattedrale di Oristano, 25 dicembre 2006

La ricca liturgia di Natale ci offre diverse chiavi di lettura del mistero del Dio fatto uomo. Ciò sta ad indicare che la potenza del mistero di Dio non può essere esaurita da una sola lettura, da un solo approccio, ma si presta a molteplici letture e a diversi approcci. Quest’oggi vogliamo riflettere su un aspetto di questo mistero, contenuto nell’affermazione centrale

del vangelo di Giovanni che abbiamo ascoltato: “il Verbo si è fatto carne”. Da questa espressione evangelica deriva la parola incarnazione, che esprime in modo veristico il diventare uomo di Dio, e, allo stesso tempo, il modo della presenza della Chiesa e del cristiano nel mondo. L’incarnazione è la vicinanza massima di Dio con l’uomo. I Padri della Chiesa hanno scritto che Dio è diventato uomo perché l’uomo diventi Dio, e affermando ciò, hanno affermato, indirettamente, che l’uomo non deve essere visto più come un piccolo mondo, un piccolo cosmo, come nella concezione greca, ma come un piccolo Dio, un interlocutore di Dio, un amico di Dio. Il Concilio, d’altra parte, ricorda che “nel mistero del Verbo Incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo”.

Secondo l'espressione del vangelo di Giovanni, il cuore dell'evento di Cristo è riassunto nel mistero dell'Incarnazione, tanto da far dire a Tertulliano che caro salutis est cardo: la carne è il cardine della salvezza. L'espressione "incarnazione" vuole affermare che Dio è diventato uomo assumendo un corpo umano, per cui il processo dell'incarnazione corrisponde al processo dell'umanazione. Questo fatto evidenzia che Gesù ha operato la salvezza e la redenzione nella carne, che gli uomini sono stati giustificati nel sangue e dal sangue di Cristo. La carne è la “parte” che simboleggia il “tutto” del corpo. Il piano di salvezza presentato da Gesù nella sua predicazione del Regno, infatti, non è puramente spirituale, bensì umano, cioè, spirituale e materiale insieme. La salvezza operata da Gesù, dunque, è una salvezza “incarnata”. Essa si manifesta specificamente come salvezza che si attua attraverso il corpo.

Oggi come oggi, il corpo umano è ben lontano dal rappresentare la rivelazione dell’umanità di Dio. Si può avere il corpo "riprodotto e moltiplicato". Si può avere il corpo "distribuito", come nel caso della diffusione generale delle banche, dove si depositano parti o prodotti del corpo, come gameti, sangue, tessuti, cellule, Dna, allo scopo di accrescere la funzionalità del corpo, che può essere riparato o reintegrato in funzioni perdute. Si può avere il corpo "modificato" a causa della crescente possibilità di trapianti e sostituzione di parti dell'organismo. Si può avere il corpo "controllato", perché i microchip che vengono impiantati per finalità di identificazione, di fatto, consentono controlli a distanza. Ci può essere il corpo "falsificato", perché noi portiamo sotto la nostra pelle un chip elettronico con dati sulla nostra identità, salute, situazione finanziaria, e qualcuno potrebbe modificarne il contenuto a nostra insaputa. Ci può essere il "corpo socializzato", data la propensione a consentire la donazione di organi per trapianti. Ci può essere il "corpo escluso", come dimostrano le ricerche e le sperimentazioni sulla gestazione fuori dal corpo femminile, che finiscono per rendere superflua la madre naturale. In questo modo, infatti, il potere di generare, attributo essenziale del genere femminile, viene trasferito dalla proprietà della donna alla facoltà della scienza.

Data questa molteplicità di raffigurazioni, composizioni, scomposizioni, acquista un'estrema importanza l’orientamento teoretico e pratico che si vuole adottare nel dare il giusto significato al corpo. Dare un significato al corpo, infatti, significa, in concreto, dare un significato all'uomo. Il corpo è l'uomo. Non esiste un corpo che non appartenga a un uomo, e non esiste un uomo che non abbia un corpo. Amare il corpo vuol dire amare la vita. Disprezzare o offendere il corpo vuol dire disprezzare o offendere la vita. Il modo con cui ci si rapporta al corpo, perciò, influisce direttamente sul modo con cui ci si rapporta alla vita e alla morte, alla difesa della vita e alla paura della morte. In questo senso, si può capire perché il corpo, da sempre, sia stato considerato come lo specchio dell'anima e la misura della nostra identità, e perché proprio per questo oggi, in modo particolare, si presti un'attenzione ossessiva alla sua apparenza esteriore. Il culto del corpo è oggi una tendenza dominante, che ha preso addirittura il posto delle credenze religiose. Nella misura in cui diminuisce la fede in una salvezza ultramondana, aumenta la cura e la preoccupazione della realtà concreta della natura, e, quindi, del proprio corpo. La chirurgia estetica non è più solamente un intervento riparatore, ma è al servizio di una bellezza inseguita ad ogni costo.

Nella concezione cristiana, il corpo è creato in Cristo, ed è destinato alla risurrezione in Cristo. Infatti, il Signore Gesù "trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose" (Fil 3, 21). Un affresco della scuola di Giotto sulla roccia di Greccio dove S. Francesco ha per la prima volta iniziato la rappresentazione del presepio descrive in modo molto originale il legame della nascita con la risurrezione, della protologia con l'escatologia. Esso rappresenta la Madre di Dio che allatta Gesù Bambino. Questo, però, è dipinto ritto dentro un sarcofago ed avvolto dalle bende del sepolcro, per indicare che la sua nascita era legata alla sua morte redentrice e che la fonte primaria del kerigma cristiano è costituita dall'annuncio del mistero pasquale di morte e risurrezione di Gesù. Il dogma dell'assunzione della Vergine Maria in cielo in anima e corpo, di fatto, conferma il valore sacro del corpo e ne anticipa proletticamente il destino eterno.

Proprio quest'affresco mette in luce come sia profondamente vero che "dare la vita" sia sinonimo vuoi di nascere vuoi di morire. Dare la vita è offrire un dono, è un consegnare ad altri o all'altro un qualche cosa che non ci appartiene. La vita e la morte sono più grandi di noi, ci oltrepassano e ci superano. Esse permangono quando noi non ci siamo più e ci sono quando noi non ci siamo ancora. La vita in modo particolare ci sorpassa sempre. La riceviamo in dono e la dobbiamo trasmettere come un dono donato, un dono ricevuto. Essa non è nostra, non ci appartiene. La gestiamo come il dono più prezioso che possediamo. "Avere" la vita è solo o prevalentemente sinonimo di possedere la vita. Avere un figlio, per esempio, esprime l'idea di possedere un qualcuno. "Dare" la vita, al contrario, esprime generosità, altruismo, amore. "Avere" la vita indica un qualcosa di individuale, di singolare, di privato. Il passaggio dal dare la vita ad avere un figlio è il passaggio dalla generalità, totalità, universalità della vita all'individualità di una singola persona che privatizza, individualizza, storicizza l'eternità della vita. Dare la vita esige un ruolo di mediazione per dare un dono più grande di noi. Nel momento in cui al dare la vita si sostituisce l'avere la vita si ostacola il ruolo della mediazione, si blocca il flusso di qualcosa di eterno, si privatizza l'universalità e la totalità del dono. Vita e morte si uniscono, si intrecciano, "confliggono" in modo originale, si rendono dipendenti l'una dall'altra. Vivere è morire. Morire è vivere. Nascere è cominciare a morire. Morire è cominciare a nascere.

Cari amici,

Natale è la festa del dono. Prestiamo attenzione affinché i doni secondari non ci facciano dimenticare il vero dono: Gesù. Prestiamo attenzione affinché Natale non sia una occasione di spreco di sentimenti, ma di rinnovamento interiore. Il Signore non è con noi solo un giorno all’anno, ma tutto l’anno. Lo dobbiamo accogliere tutto l’anno. Una coppia che si vuol veramente bene, non si scambia affetto solo il giorno del compleanno, ma tutti i giorni dell’anno. Ora, Natale non è una data di compleanno, ma un modo di vivere, anche se esso ha diviso la storia in dopo Cristo e prima di Cristo. Tale spartiacque vale ancora oggi, nonostante sia abitudine dire “dopo l’11 settembre” o “dopo la caduta del muro di Berlino”. Non si può fare la storia come se Dio non esistesse e come se Cristo non fosse venuto. Il nostro agire deve testimoniare che Dio esiste e che Cristo è venuto. Questo esige la nostra fede. Questo deve dimostrare la nostra vita.