Don Matteo Ortu

Cattedrale di Oristano, 28 giugno 2013

Benvenuti a questa celebrazione comunitaria nella quale invochiamo la grazia dello Spirito sulla persona e sul futuro ministero sacerdotale di don Matteo Ortu, di Bauladu, da non confondere con don Matteo Minelli-Boldrini, parroco della chiesa di San Giovanni in Gubbio,

che invece di stare in chiesa per assolvere i peccati va in giro con la bicicletta per scoprire i reati. La coincidenza dell’ordinazione presbiterale con la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo ci presenta la splendida testimonianza di Pietro a Cesarea di Filippo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16), e a Gerusalemme, dopo la sua liberazione miracolosa dal carcere: “Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva” (At 12, 11). Tuttavia, il messaggio della Parola di Dio sulla quale vorrei attirare la vostra riflessione è quello contenuto nella lettera di San Paolo a Timoteo. L’apostolo Paolo ha scritto: “ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4, 7). Tu, infatti, caro don Matteo, oggi inizi una corsa, non per inseguire i delinquenti con la tua bicicletta, ma per accompagnare i cercatori di Dio con la misericordia divina.

L'immagine della corsa la si trova in molti testi delle lettere paoline. L'Apostolo, portando l'annuncio del vangelo in un mondo come quello greco, paragona spesso il cammino del cristiano verso l'eternità allo sforzo dell'atleta per conquistare la vittoria. Di Dio, tuttavia, e anche di Gesù non si dice mai che corrono. Il correre è sempre riferito all'uomo. Il camminare, invece, è riferito a Dio. Dio cammina (Es 34, 9), anzi, secondo la descrizione della Genesi, passeggia nel giardino dell'Eden alla brezza del giorno (Gn 3, 8). Gesù cammina per le strade della Palestina, insegnando e compiendo miracoli, cammina nella cittadina di Gerico e si ferma per pranzare nella casa di un peccatore, cammina con i discepoli di Emmaus, per spiegare loro il senso delle Scritture, per riscaldare il loro cuore senza speranza, per suscitare in essi "la prima e forse la più commovente preghiera della comunità cristiana dopo la Pasqua": "resta con noi Signore, perché si fa sera" (Card. Martini).

L'uomo corre e non si ferma. Dio soccorre e si ferma. Il levita della parabola evangelica corre per celebrare il culto del tempio. Il samaritano della storia si ferma per onorare il dovere della compassione. L'uomo corre per non vedere la sua miseria e quella del prossimo. Dio si ferma a vedere la miseria dell'uomo, ad ascoltare il grido di aiuto che sale dal cuore del peccatore.

Se riflettiamo bene sulle vicende della vita, il camminare dell'uomo non è sempre un camminare secondo lo Spirito, anche perché non sempre le vie del Signore sono le vie dell'uomo, i pensieri del Signore sono i pensieri dell'uomo. Spesso c'è conflitto interiore tra la volontà di Dio, che non si conosce, e i progetti dell'uomo, che si vogliono realizzare. Talvolta si corre, ma non si sa perché si corre. Tal' altra si corre, ma non si sa verso che cosa si corra. Il come si corre è il mezzo, il verso dove si corre è il fine. Il problema è che il verso dove, ossia la meta, la civitas futura (Eb 13, 14), il cielo nuovo e la terra nuova, sono in una dimensione escatologica e non si vedono, mentre il come è nella concretezza quotidiana e si vede. Il dramma della trascendenza sta precisamente nel fatto che essa supera la percezione dei sensi, e, scavalcando ogni concretezza e gratificazione immediata, si colloca nella sfera di quell' "essenziale", che, secondo la nota massima del piccolo principe, è invisibile agli occhi. In effetti, è proprio vero che ci sono molte più cose tra cielo e terra di quelle che la filosofia può immaginare e la scienza dell'uomo descrivere. Dio rimane sempre più grande del cuore dell'uomo ed eccede la sua intelligenza. Dio non lo si capisce. Dio lo si prega. S. Agostino ammonisce che: si comprehendis non est Deus. La contemplazione del

suo mistero produce comunione. La pretesa di comprendere la sua natura produce divisione, sia nella vita dei credenti che nella comunità dei popoli.

La società contemporanea consacra e benedice solo la corsa verso il guadagno e il profitto. In essa c'è addirittura qualcuno che non riposa mai, che lavora 24 ore su 24 ore. Questo qualcuno sono i soldi. Essi producono profitto ininterrottamente, in base alla durata e alla quantità. Ora, il cristiano non si lascia influenzare dalla corsa affannosa per ricavare il maggior profitto possibile. Egli sa trovare il coraggio per andare contro corrente e fermarsi per accudire i bisogni dello spirito, perché questi sono insopprimibili e non possono essere gratificati dai vari allenatori dell'anima. Sa prendersi del tempo per ringraziare chi lo ama e perdonare chi lo odia. Egli è convinto che "se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori" (Sal 127, 1); è convinto che tutto quello che possiede gli è stato donato (1Cor 4, 7: "che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l'avessi ricevuto"?).

Quello che veramente conta per il cristiano di oggi e di sempre non è il tempo della fatica, non è la quantità del lavoro, non è la ricompensa della propria prestazione, bensì la gratuità dell'amore. Un gesto d'amore è senza ragione, senza tempo, senza ricompensa. Esso gratifica chi lo riceve, e nobilita chi lo dà. L'uomo è nato per amare ed essere amato. Nella misura in cui egli ama dà al mondo un supplemento di umanità e di nobiltà.

In ultima analisi, lo stile di vita del cristiano è quello che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli nel cammino sulle strade della Samaria e della Giudea per arrivare a Gerusalemme (Lc 9, 51-19, 28). I discepoli, sulla base di quegli insegnamenti, sono chiamati a dare testimonianza della sequela di Gesù con atteggiamenti concreti nel vivere quotidiano, quali l'annuncio del vangelo, l'uso dei beni, il distacco dalla seduzione delle ricchezze, la fede nel Cristo, l'amore del prossimo, la preghiera fiduciosa e perseverante, il coraggio della testimonianza, la vigilanza cristiana e l'attesa del Regno, la conversione, l'amore per i poveri e i peccatori come imitazione dell'amore di Dio, l'impegno nel mondo. L'insieme di questi insegnamenti, di fatto, ha caratterizzato la comunità dei discepoli sin dall'inizio della storia del cristianesimo. Essi hanno costituito la cosiddetta "via", che, praticata da tutti coloro che seguivano Gesù, ha ispirato molti testimoni delle beatitudini e altrettanti martiri della fede. Quando quella via si allontanava dagli insegnamenti del Maestro, la comunità reagiva e ne difendeva l'autenticità. Lo fece con Apollo, una sorta di predicatore improvvisato e di discepolo senza sequela. In quella circostanza, è stata precisamente una coppia della comunità, Priscilla e Aquila, ad insegnare ad Apollo la giusta via della fede e della grazia, quasi a sottolineare con i fatti che non l'autorità dell'insegnamento e neppure l'erudizione della scienza conducono l'uomo all'incontro con Dio, bensì l'esperienza della grazia e la testimonianza della comunione (At 18, 24-26).

Cari fratelli e sorelle in Cristo, se una corsa ci deve essere nella vita del cristiano essa non può che essere la corsa del discepolo e dell'evangelizzatore. Il profeta Isaia chiama belli "i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, del messaggero di bene che annunzia la salvezza" (Is 52, 7). Adoperiamoci perché la nostra corsa si ispiri alla corsa vero il sepolcro delle donne e degli apostoli Pietro e Giovanni. Una corsa della speranza verso la risurrezione, della vita contro la morte, del coraggio della fede contro la paura del male.