Concelebrazione del giovedì santo

Cattedrale di Oristano, 21 aprile 2011

Quest’anno facciamo memoria dell’istituzione del sacerdozio e dell’Eucaristia nel contesto della nostra preparazione al congresso eucaristico diocesano, che concluderà il cammino di riflessione su come renderci contemporaneo Gesù e su come passare da una Eucaristia celebrata ad una Eucaristia vissuta.

Mi auguro che il cammino di riflessione che stiamo facendo ci porti ad una conoscenza più profonda del ruolo di Gesù nella nostra vita. Celebrare l’Eucaristia, infatti, per noi significa rendere presente Gesù nel mondo e nella storia. La presenza eucaristica di Gesù, come si sa, non è gloriosa, appariscente, miracolosa, ma umile e nascosta sotto le specie del pane e del vino. Essa è legata al ministero del sacerdote. Senza sacerdote non c’è Eucaristia e senza Eucaristia non si può fare Chiesa. Questa interdipendenza sacramentale, però, si deve riflettere in qualche modo nell’esistenza quotidiana, secondo l’esempio dell’apostolo Paolo che poteva dire di sé: “non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me”(Gal 2, 20). Solo una eucaristia esistenzialmente vissuta può diventare un’eucaristia degnamente celebrata. Benedetto XVI, poi, ha precisato che “il successo dell’apostolo dipende soprattutto da un coinvolgimento personale nell’annunciare il Vangelo con totale dedizione a Cristo”. Ed ha aggiunto: “l’azione della Chiesa è credibile ed efficace solo nella misura in cui coloro che ne fanno parte sono disposti a pagare di persona la loro fedeltà a Cristo, in ogni situazione. Dove manca tale disponibilità, viene meno l’argomento decisivo della verità da cui la Chiesa stessa dipende”. La pratica della carità e della giustizia nella vita del sacerdote e della comunità, dunque, è il modo giusto di testimoniare la presenza eucaristica, perché Gesù ha pronunciato il suo “guai” contro quelli che “seduti sulla cattedra … dicono e non fanno, legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle degli altri, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (Mt 23, 3-4).

Ora, ci chiediamo come debba testimoniare la presenza di Gesù il sacerdote nel suo ministero e nella sua missione. A questo riguardo, c’è chi vede l’autenticità della testimonianza nell’uso della stola e chi invece reclama l’uso del grembiule. Secondo me, la stola non elimina il grembiule e il grembiule richiede la stola. Comunque, il modello cui ispirarsi non può che essere Gesù stesso, che, nell’odierna proclamazione della Parola, identifica la sua missione con il “portare un lieto messaggio ai poveri; proclamare la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi, rimettere in libertà gli oppressi, predicare un anno di grazia del Signore”. Questa missione profetica è molto coraggiosa e non sempre viene compresa nel suo giusto significato. L’evangelista scrive che alla fine di questa autopresentazione di Gesù nella sinagoga di Nazareth, “tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno, si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio” (Lc 4, 28-29). Già dal tempo di Gesù, quindi, nessun profeta è ben accetto nella sua patria ed è sempre esposto a minacce di morte e persecuzione. Ma non per questo il sacerdote deve disattendere la sua missione profetica. Esempi luminosi di sacerdoti di tutti tempi e di tutti i luoghi ci attestano che essa è stata realizzata con coraggio e passione, e soprattutto con amore, perché, come recita il titolo di un volume sul sacerdozio: “Senza l’amore la profezia è morta.” In un mondo in cui mancano i maestri di vita, dominano le schiavitù occulte e le dipendenze di ogni genere, la missione profetica del sacerdote oggi come oggi dovrebbe essere quella d’un educatore e padre che genera valori, apre prospettive, crea speranza e futuro.

La storia della salvezza, ora, ci dice che il vero educatore è Dio Padre, che educa con un suo progetto di salvezza. Di conseguenza, la pedagogia del sacerdote così come quella della comunità cristiana, della famiglia e della scuola, luoghi primari di formazione umana e cristiana, non può non riprodurre in qualche modo una immagine della pedagogia di Dio, che educa il suo popolo come un padre, secondo un progetto che dall’uomo viene cercato, accolto, eseguito, in fedeltà e in responsabilità. La categoria evangelica che dà un volto alla pedagogia paterna di Dio la si può individuare nella parabola degli operai della vigna. Secondo questa parabola, la nobiltà dell’uomo non sta nell’eseguire un suo progetto grandioso, ma nell'eseguire il progetto di Dio, nell’essere un operaio nella vigna del Signore, secondo tempi, orari, ritmi, risultati e rendimenti, che il Signore stesso conosce e stabilisce (cfr. Mt 20, 1-16).

Ovviamente, il fatto di essere un operaio nella vigna del Signore non deresponsabilizza l’uomo ma lo rende doppiamente responsabile, perché lo chiama a gestire un qualcosa che non è proprio, come la grazia e il perdono, ma che è di Dio stesso. Anche se è Dio colui che fa crescere (1Cor 3, 6; 2Cor 9, 10), e tutta quanta la crescita è crescita verso Cristo (Ef 4, 15; 1Pt 2, 2), l’uomo non cessa di essere una persona responsabile, un soggetto libero che "assente e coopera liberamente alla grazia giustificante di Dio" (DS, 1525). Dio dà al popolo la terra promessa, ma il popolo la deve conquistare. Dio dà la vita eterna, ma il cristiano la deve meritare con il suo impegno.

La conseguenza operativa di questo rapporto di collaborazione con Dio è che bisogna riscoprire la contemplazione nella vita di preghiera e privilegiare l'apostolato dell'essere nel ministero pastorale. La tecnica che artificializza la società potrebbe finire per artificializzare anche le forme dell’apostolato. La preghiera ed il sacrificio personale non possono essere sostituiti da nessuna tecnica. “Le grandi conquiste della tecnica ci rendono liberi e sono elementi del progresso dell’umanità soltanto se le nostre mani diventano innocenti e il nostro cuore puro, se siamo in ricerca della verità, in ricerca di Dio stesso, e ci lasciamo toccare ed interpellare dal suo amore” (Benedetto XVI).

Auguro vivamente che ogni sacerdote, sotto la potenza dello Spirito, diventi educatore e padre che genera alla fede e alla speranza, e che la nostra comunità diocesana, resa da Gesù “un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1, 6), operi come una comunità educante. Ci sono nel nostro mondo tanti giovani disorientati, protagonisti vuoti di un mondo virtuale e vittime incoscienti di sentimenti immaginari; tante famiglie, che faticano a vivere serenamente il rapporto di fedeltà e reciprocità; tanti egoisti dichiarati o segreti, che ignorano la povertà e la miseria del vicino di casa; tanti condannati nel letto della sofferenza, troppo spesso privi del conforto umano e dell’aiuto della fede. Per tutti questi fratelli e sorelle, nostri compagni di viaggio in ricerca di relazioni di sincera umanità, ognuno di noi può diventare una voce amica per rivelare loro il volto di Dio misericordioso e donare loro la gioia interiore della pace del cuore. A chi, poi, nella nostra comunità di presbiteri, è in condizioni di grave sofferenza non possiamo di certo eliminare la sua sofferenza. Ma, senza alimentare equivoci di nessun genere, possiamo almeno manifestargli vicinanza e solidarietà con quelle forme di aiuto concreto che le particolari circostanze ci richiedono.