Concelebrazione del giovedì santo

Cattedrale di Oristano, 5 aprile 2012

Il messaggio biblico che interpella la nostra coscienza nell’odierna celebrazione eucaristica è centrato sull’identità di Gesù come profeta di liberazione e di giustizia. Con queste prerogative Isaia presenta il futuro Messia, e con le medesime prerogative Gesù

identifica se stesso nella sinagoga di Nazareth. S. Luca sottolinea che Gesù ritorna in Galilea “con la potenza dello Spirito Santo” e che davanti ai suoi uditori egli afferma che “lo Spirito del Signore” è sopra di lui. Dunque, in estrema semplificazione, Gesù si presenta come colui che, con la potenza dello Spirito, è inviato a promuove la liberazione e la giustizia. Questa identità di Gesù diventa in qualche modo normativa ed esemplare soprattutto per coloro che, come i sacerdoti, sono chiamati a continuare la sua opera, ad operare in suo nome, ad elargire la sua grazia. Il convenire, allora, in questa Chiesa madre per fare memoria dell’origine del sacerdozio è un’occasione propizia per mettersi in ascolto della Parola di Dio e verificare, alla sua luce, se, nella missione di sacerdoti e di cristiani, siamo veri testimoni di liberazione e di giustizia.

La traduzione della missione sacerdotale in modelli concreti di testimonianza è richiesta in modo particolare dalla mancanza d’orizzonti di senso della nostra gente. I tradizionali grembi generatori di valori e significati, quali la famiglia, la scuola, la comunità civile, stanno diventando sterili e perdono progressivamente autorevolezza morale. Oggi più che mai, perciò, è urgente che ci siano testimoni capaci di presentare il volto di un cristianesimo possibile, con gesti di coerenza e di coraggio. Dai fedeli si esige, giustamente, di dimostrare in concreto che è possibile evitare l’aborto, praticare l’astinenza, curare i malati terminali e in stato vegetativo persistente, pagare le tasse, gestire il necessario senza rincorrere il superfluo, praticare la fedeltà nel matrimonio e l’onestà con il fisco, dare e accettare il perdono delle offese. Se ci sono, infatti, uomini e donne che vivono questi valori, significa che è possibile essere cristiani virtuosi e felici allo stesso tempo.

Da chi, però, in modo particolare si esige coerenza e coraggio è dal sacerdote. È lui che deve parlare di Gesù, che deve testimoniare una profonda esperienza di Dio. Egli non è posto a servizio d’un’ideologia, e neppure d’un suo progetto pastorale individuale. Egli è a servizio del Regno che richiede uno stile di preghiera e carità, la capacità di confortare, la disponibilità alla conversione. Solo un presbitero riconciliato con Dio e con il prossimo ha il potere spirituale di predicare la riconciliazione ai suoi fedeli. Solo un presbitero che vive la comunione con il vescovo e con i suoi confratelli può chiedere condivisione e solidarietà ai suoi collaboratori. Dobbiamo essere convinti che l’obbedienza è ancora una virtù sia all’interno della comunità ecclesiale, tra vescovo e sacerdoti, sia all’interno della famiglia, tra genitori e figli, sia all’interno della scuola, tra docenti ed alunni. Ognuna di queste comunità è una casa di vetro che deve riflettere comportamenti esemplari. Sul volto del sacerdote, però, si deve rispecchiare grande interiorità e profonda spiritualità. Egli è chiamato a rispettare nei confronti del suo vescovo, dei suoi confratelli, dei suoi fedeli, non solo il galateo delle forme ma soprattutto il galateo del cuore. In ogni età ed in ogni ruolo egli può trovare parole e gesti che creano comunione ed eliminano divisioni dannose e contrapposizioni inutili.

I vescovi, successori degli apostoli, ed i sacerdoti, loro collaboratori, hanno ricevuto da Gesù stesso il compito di annunciare il vangelo della salvezza e della speranza. La loro responsabilità, perciò, è grandissima, soprattutto perché è continuamente sfidata a coniugare tradizione e profezia, continuità e rinnovamento. La modalità fondamentale con cui deve essere fatto questo annuncio la si trova nelle indicazioni che Dio stesso ha dato al profeta: “Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò … Il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dei, quel profeta dovrà morire” (Dt 18-20). La Chiesa, dunque, come il profeta, ha la missione di intervenire, ammonire, rimproverare, consolare, denunciare, incoraggiare in nome di Dio. Essa è “madre e maestra”; prima madre, perché genera i figli con l’acqua del battesimo, poi maestra, perché indica ai fedeli la via per arrivare all’esperienza di Dio. Essa è ben consapevole che, per i suoi figli, il messaggio che proviene dai vangeli del dolore insegna che finché il cielo esiste ci sarà una consolazione per ogni sofferenza della vita. Dalla disperazione più tremenda può nascere la speranza più forte.

Benedetto XVI, parlando del cardinale vietnamita Van Thuan, ebbe a dire che il presule “era un uomo di speranza, viveva di speranza e la diffondeva tra tutti coloro che incontrava. Fu grazie a quest’energia spirituale che resistette a tutte le difficoltà fisiche e morali. La speranza lo sostenne come Vescovo isolato per 13 anni dalla sua comunità diocesana; la speranza lo aiutò a intravedere nell’assurdità degli eventi capitatigli – non fu mai processato durante la sua lunga detenzione – un disegno provvidenziale di Dio. Amava ripetere che il cristiano è l’uomo dell’ora, dell’adesso, del momento presente da accogliere e vivere con l’amore di Cristo. In questa capacità di vivere l’ora presente traspare l’intimo suo abbandono nelle mani di Dio e la semplicità evangelica ammirevole”.

Per noi sacerdoti è molto commovente la testimonianza dello stesso Cardinale: “Quando sono stato arrestato ho dovuto andarmene subito, a mani vuote. L’indomani, mi è stato permesso di scrivere ai miei per chiedere le cose più necessarie: vestiti, dentifricio … Ho scritto: “Per favore, mandatemi un po’ di vino, come medicina contro il mal di stomaco”. I fedeli subito hanno capito. Mi hanno mandato una piccola bottiglia di vino per la Messa, con l’etichetta. “medicina contro il mal di stomaco”, e delle ostie nascoste in una fiaccola contro l’umidità. […] Non potrò mai esprimere la mia grande gioia: ogni giorno, con tre gocce di vino e una goccia d’acqua nel palmo della mano, ho celebrato la Messa. Era questo il mio altare ed era questa la mia cattedrale! […] Ogni volta avevo l’opportunità di stendere le mani e di inchiodarmi sulla croce con Gesù, di bere con lui il calice più amaro. […] Erano le più belle Messe della mia vita”.

Cari fratelli e sorelle in Cristo,

tra meno di un mese celebreremo il trecentesimo anniversario del nostro Seminario. Ogni sacerdote ha legato a questo luogo di crescita umana e discernimento vocazionale ricordi di preghiera, di studio, di fatica, di ricerca. In questo luogo il sacerdote ha maturato la decisione di dedicare la sua vita al servizio di Dio e dei fratelli. Adoperiamoci e preghiamo il Signore, perché faccia sì che, con l’aiuto di tutti, il Seminario formi numerosi e degni ministri della grazia e della misericordia del Signore.