Concelebrazione del giovedì santo

Cattedrale di Oristano, 28 marzo 2013

Dall’odierna pagina di Vangelo, che racconta la visita di Gesù nella Sinagoga e la sua spiegazione della Sacra Scrittura, vorrei ricavare alcune indicazioni spirituali, che sottopongo alla vostra riflessione: l’esortazione ad essere uomini di Chiesa, a lasciarci guidare dallo Spirito, a promuovere i processi di liberazione.

Ritengo che queste indicazioni siano più pratiche ed efficaci delle parabole moderne che vogliono descrivere il prete come un 'ostetrico' del senso, perché aiuta ciascuno a tirare fuori il senso che è iscritto dentro di sé, o 'fuochista dell'assoluto', perché aiuta a mantenere accesa la scintilla di infinito che è in ciascuno.

Innanzi tutto, siamo esortati ad essere uomini di Chiesa. Possiamo dire, in certo qual senso, che Gesù era un uomo di Chiesa per il fatto che andava regolarmente ogni sabato alla Sinagoga, in fedeltà e adempimento dei suoi doveri religiosi. Il suo comportamento corrisponde a quello di coloro che noi oggi chiameremmo, appunto: uomini di Chiesa. Spesso nel linguaggio comune si usa questa espressione per indicare la fedeltà alla frequenza della messa della domenica e delle feste patronali, l’osservanza dei precetti della Chiesa, il rispetto delle istituzioni ecclesiastiche. Alla luce del comportamento di Gesù, tuttavia, essere uomo di Chiesa significa, in modo particolare, vivere della Parola di Dio. Gesù vive della Parola di Dio, come lo dimostrano le sue risposte al diavolo tentatore (Mt 4, 1-11), e come lo dimostra il fatto che, per il suo servizio nella Sinagoga, egli non sceglie a suo piacimento il passo della Scrittura da commentare, ma si mette a servizio della Parola che gli viene incontro e interpreta l’oggi della sua missione alla luce di questa Parola (Lc 4, 21).

In ultima analisi, vivere della Parola vuol dire anteporre la volontà di Dio alla nostra, rispettare i tempi dei suoi interventi (Lc 2, 4), lasciare che sia Dio a scrivere la nostra storia con le sue Parole e i suoi interventi; meritare la beatitudine di Gesù, che, alla donna che benediceva il grembo che lo aveva allattato, replicò chiamando beati coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica (Lc 11, 27-28); essere pronti a gettare la rete nel mare della vita su ordine della sua Parola (Lc 5, 5).

In secondo luogo, siamo esortati a lasciarci guidare dallo Spirito. San Paolo raccomanda ad ogni cristiano: “Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito” (Gal 5, 16). “Lasciatevi guidare dallo Spirito” (Gal 5, 8). Camminare secondo lo Spirito Santo significa entrare in comunione con Lui e chiedergli di guidarci nelle vicende della nostra vita, di illuminarci, di consolarci, di farci crescere nella fede, di guarire le nostre ferite interiori, di donarci la potenza per evangelizzare, di darci la forza di perdonare, di donarci la pace del cuore. “Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5, 25), conclude S. Paolo. Alla scuola dello Spirito Santo cresce la nostra vera conoscenza di Gesù, che ai suoi discepoli ha promesso: «Quando verrà il Consolatore che vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, Egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio" (Gv 15, 26). Alla stessa scuola impariamo a pregare il Signore con le parole di Davide: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo Santo Spirito” (Sal 50, 12-13). Gli apostoli di ieri e di oggi, i testimoni della fede e della carità, i martiri delle catacombe e dei tribunali moderni, le vittime della persecuzione fondamentalista si sono lasciati afferrare e condurre dallo Spirito Santo nel momento della prova, nel momento dell’accoglienza del loro messaggio e in quello della contestazione delle loro azioni. Lo Spirito anima la Chiesa dei nostri giorni, nella quale crescono insieme il grano e la zizzania, operatori di pace e uomini di divisione, difensori del cambiamento e custodi del passato. Gesù ci esorta all’unità, all’accoglienza, alla condivisione, a non scandalizzarci per la presenza di difetti e lacune, a non tentare neppure di dividere il grano dalla zizzania, riservando a sé questo compito nel giorno del Grande Giudizio

La compatrona d’Italia, Caterina da Siena, scriveva a suo tempo che “la corte del Padre Santo Nostro sembrami talora un nido d’angeli, talaltra un covo di vipere”. Benedetto XVI ha denunciato il volto della Chiesa deturpato dalle rivalità e dagli individualismi, dalle divisioni e dal carrierismo. C’è del bene e del male, dunque, nelle nostre comunità, della grazia e del peccato, della solidarietà e dell’egoismo. A partire da questa situazione concreta, lo Spirito ci aiuta a discernere il bene e il male, la virtù e il vizio, e ci consacra a “portare il lieto annunzio ai poveri, fasciare le piaghe dei cuori spezzati, consolare tutti gli afflitti” (Lc 4, 18-19).

Siamo, quindi, in terzo luogo, esortati ad essere promotori di libertà interiore e accompagnatori spirituali degli uomini e delle donne del nostro tempo. La prima missione di Gesù è quella di chiamare i peccatori a convertirsi, di liberarli dalle loro povertà spirituali (Lc 5, 32). In ultima analisi, Gesù è venuto per riportare i lontani a Dio e portare Dio ai lontani, portare la salvezza a uomini e donne senza speranza, aprirli a tutte le loro potenzialità di vita, di lavoro, di intelligenza, di amore. La Chiesa, seguendo l’esempio del suo Maestro, è sempre dalla parte dell’uomo, di ogni uomo, anche dell’uomo che sbaglia. Essa non ha interessi da difendere, ma una funzione profetica da esercitare. La Chiesa povera, la Chiesa dei poveri, sognata da papa Francesco.

L’opzione della Chiesa per i poveri, tuttavia, non ci deve portare a confonderla, come spesso succede nell’opinione pubblica dominante, con un’organizzazione di volontari, di filantropi, di militanti sociali che denunciano ingiustizie, disparità, violazione dei diritti umani. Nessuno nega che questi ideali umanitari siano molto nobili. Ma per un cristiano tutto questo può non bastare. Il cristianesimo “secondario” dell’impegno sociale e politico non può essere mai anteposto al “cristianesimo primario” dell’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo. La carità della verità deve andare di pari passi con la carità del pane, perché “non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. La carità materiale per vincere le povertà vecchie e nuove è solo la conseguenza, doverosa ma subordinata, della carità spirituale dell’annuncio che Gesù è il Cristo. Questo annuncio ribadisce che non vi è vita umana senza una prospettiva di eternità. Benedetto XVI, in occasione del cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II, ha indetto un anno della fede per richiamare la necessità che la Chiesa riguadagni il suo centro e la sua ragione d’esistere: il fatto di essere, cioè, la comunità di quanti credono in Cristo e nel Dio che Egli ci ha manifestato; e il fatto che questa è l’unica ricchezza che essa possiede, rispetto alla quale ogni altra cosa appare inesorabilmente secondaria.

In definitiva, il cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da questo amore, è aperto in modo profondo e concreto all'amore per il prossimo. Tale atteggiamento nasce anzitutto dalla coscienza di essere amati, perdonati, addirittura serviti dal Signore, che si china a lavare i piedi degli Apostoli e offre Se stesso sulla croce per attirare l’umanità nell’amore di Dio.